Queste dirette fanno parte di un ciclo di incontri, che si tengono sempre il lunedì alle ore 21,00 sulla pagina Facebook di Marta Brusoni, nostra socia e conduttrice delle serate, per approfondire temi sociali e imprenditoriali, nell’ ambito dello spazio Trait d’ Union aperto alle riflessioni e alle idee delle persone.
La presente, che è la 38^ del ciclo, ha avuto come ospiti le nostre socie Marinella Accinelli, Gabriella de Flippis, Adelina Vassallo oltre alla socia Marta Brusoni, che ha condotto l’incontro
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La Giornata mondiale dell’acqua (World Water Day), che si celebra appunto il 22 marzo, è una ricorrenza istituita dalle Nazioni Unite nel 1992. Il tema di quest’anno è il legame tra acqua e cambiamenti climatici. L’obiettivo della giornata è sensibilizzare istituzioni mondiali e opinione pubblica sull’importanza di ridurre lo spreco di acqua e di assumere comportamenti volti a contrastare il cambiamento climatico.
Fra gli ospiti la nostra socia Gabriella de Filippis; è inoltre intervenuta Adelina Vassallo past Presidente della nostra Sezione.
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La nostra Sezione è stata rappresentata dalla sua Presidente Elena Bormida; sono inoltre intervenute la Presidente di AIDDA Tiziana Lazzari e la Presidente della Consulta Femminile di Genova Fiammetta Malagoli.
Il primo intervento è stato quello di Elena Bormida che, dopo avere presentato l’Associazione e la sua mission, si è così espressa:
Mi fa piacere ricordare che nel Novembre del 2019 e nel Gennaio del 2020 -sull’onda dell’indignazione scaturita a seguito dell’uccisione di Hevrin Khalaf- abbiamo realizzato due incontri in collaborazione con la Sezione di Savona in cui è stata ben definita da un punto di vista sociale e politico la situazione delle donne curde, con particolare attenzione a quella delle donne soldato.
Oggi la Turchia è diventata un altro scenario che merita la nostra attenzione, non che la situazione del Kurdistan e di tutti i curdi in generale sia migliorata, ma tristemente i “media” non ne parlano praticamente più.
Il fatto che la Turchia abbia abbandonato la “Convenzione contro la violenza sulle donne”, approvata proprio a Istanbul nel 2011 e di cui la Turchia era stata il primo paese firmatario, se da una parte ha lasciato stupiti, dall’altra ha semplicemente confermato la direzione che Erdogan ha intrapreso oramai da anni.
La Convenzione sancisce che gli Stati hanno l’obbligo di proteggere chi è più esposto a rischi e a garantire che la violenza contro le donne sia penalizzata e punita. L’obiettivo ultimo è quello della tolleranza zero, specialmente nei confronti della violenza domestica intendendola non più come un mero fatto privato.
Erdogan ha invece intrapreso una strada opposta, ad esempio vietando la distribuzione di un libro come “Storie della buonanotte per bambine ribelli” che qui da noi tantissime zie hanno regalato alle proprie nipotine per ricordare loro che possono -anzi devono- sognare in grande, puntare in alto e lottare sempre con energia e ha anche rilanciato il matrimonio riparatore (anche se con la clausola che tra stupratore e vittima non ci siano più di dieci anni di differenza).
A Istanbul sono state e continuano ad essere moltissime le manifestazioni di protesta per chiedere a gran voce il ritiro di una proposta come questa che potrebbe aggravare di molto i problemi della violenza di genere (le donne vittima di femminicidio sono più di 400 l’anno) e quello delle spose bambine, fenomeno purtroppo diffuso nelle aree più arretrate del Paese. La legge infatti non sarebbe altro che un salvacondotto per gli autori di violenze sessuali. Una sorta di amnistia che, per la maggioranza di governo ad Ankara serve soprattutto a sanare situazioni de facto che riguardano le zone rurali dove Erdogan va per la maggiore. Le spose bambine negli ultimi dieci anni pare siano state un numero di poco inferiore al mezzo milione anche se si tratta di cifre certamente sottostimate perché le nozze spesso non vengono celebrate di fronte a pubblici ufficiali, ma solo da autorità religiose locali. Pertanto è drammaticamente e certamente molto più ampio.
Credo che i libri a volte ci chiamino a sé. E quindi non deve essere un caso se qualche mese fa ho acquistato “Leggere Lolita a Teheran” un romanzo autobiografico di Azar Nafisi, professoressa di letteratura inglese nell’Iran della rivoluzione islamica. Nafisi racconta come nel giro di poco tempo le donne siano passate da una libertà sociale come la intendiamo noi ad essere perseguite per tutto ciò che, secondo la sharia non era un comportamento “consono” e dentro a questo aggettivo ci sta praticamente qualunque cosa, dall’uscire non accompagnate, all’avere l’obbligo di coprire braccia e gambe con abiti ampi, e specialmente coprire il capo con un velo, nascondendo rigorosamente i capelli. Bambine e ragazze che vengono punite per avere le ciglia o le unghie troppo lunghe o per essersi intrattenute a parlare con coetanei maschi. Le protagoniste di questo romanzo espongono le difficoltà di essere donna nella repubblica islamica dell’Iran. Fino a quando c’era lo Scià Reza Palhavi l’Iran era un paese laico e moderno, dove pareva impossibile veder applicate restrizioni che, invece, sono poi diventate la normalità. La professoressa, se voleva continuare ad insegnare all’università, doveva cedere alle pretese del regime sia quindi indossando il velo che dando un taglio decisamente più “ortodosso” ai propri corsi di studio. L’alternativa era ritirarsi da qualunque tipo di vita sociale. Viene quindi piuttosto spontaneo individuare un parallelismo con quello che sta avvenendo oggi in Turchia.
C’è un passo che vorrei leggervi a pag. 136 che dice “fin dall’inizio della rivoluzione c’erano stati diversi tentativi di imporre il velo…”
La Convenzione in argomento è il primo Trattato internazionale che contiene una definizione di genere che propone una distinzione tra uomini e donne non più unicamente basata sulle loro differenze biologiche, ma concepita anche secondo categorie socialmente costruite, che assegnano ai due sessi ruoli e comportamenti distinti.
Vorrei ricordare l’obiettivo n°5 dell’Agenda 2030 che dice “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e le ragazze poiché le disparità di genere costituiscono uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro la povertà”. E pertanto dovrebbe proprio essere il più urgente, quello da cui partire, essendo un obiettivo davvero trasversale per come è connesso a tutti gli altri.
Parità di genere significa assicurare a donne e uomini, bambine e bambini uguali diritti, responsabilità ed opportunità, senza alcuna discriminazione.
Ma il primo ostacolo da superare sta proprio nella percezione del problema: non si tratta solo di eliminare le discriminazioni, le ingiustizie e le violenze, ma c’è soprattutto da trasformare un modo di pensare che non riconosce a uomini e donne la stessa dignità di soggetti. E il ruolo maschile, come si va ripetendo da più parti – Fidapa compresa naturalmente- è essenziale per questa trasformazione.
Uomini e donne sono/siamo “due”. Non siamo uguali, ma abbiamo diritto agli stessi diritti! Abbiamo modi diversi di pensare, agire, parlare. Occorre scoprire come far emergere un punto di vista femminile sulle cose. E’ evidente come nel mondo manchi uno sguardo femminile autorevole e lo abbiamo visto anche recentemente.
In concreto è necessario formare donne consapevoli del proprio essere. L’inadeguatezza femminile è una sensazione assai diffusa e trasversale alle carriere e alle condizioni sociali, ma è un ottimo punto di partenza, ed è in fin dei conti un sentimento positivo perché misura la distanza tra i nostri desideri e la realtà. E questa distanza ha un valore profondo che va riconosciuto e tradotto in pensieri e azioni concrete che siano capaci di cambiare lo status quo a cui ci stiamo tristemente abituando.
La Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948 esordisce così: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. E questi diritti sono solo da riconoscere, non da creare! E proprio perché non li ha creati nessun potere, nessun potere può distruggerli.
Oggi potremmo sostenere che le donne vivono una schiavitù più o meno velata che non dipende solo dalle leggi, ma proprio dalle consuetudini: che esista ancora una disparità di genere nelle società del mondo è un dato di fatto, non è un’opinione.
Ma quando si è schiavi? Si è schiavi quando non si ha la libertà di svilupparsi autonomamente, ma si è condizionati dalle consuetudini, dagli stereotipi che lavorano in profondità e segnano altrettanto profondamente gli animi degli individui.
Gli stereotipi di una società patriarcale valgono sia per gli uomini che per le donne perché tutti e tutte siamo inseriti in questo modo di vivere e di vedere.
FIDAPA si prefigge lo scopo di rimuovere questi stereotipi ed è accanto a chi vorrà contrastare e smuovere un certo tipo di coscienza che oggi, veramente, non ha più alcun senso di esistere.
Concludo citando Daisaku Ikeda, filosofo e maestro buddista, che dice: “la rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine ad un cambiamento nel destino di tutta l’umanità”.
Grazie.
Interviene quindi Tiziana Lazzari che presenta la sua Associazione e sottolinea come stia promuovendo nelle scuole la formazione all’ imprenditoria al femminile.
Attualmente tale progetto è stato avviato presso l’Istituto Alberghiero “Marco Polo”.
Quanto all’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul lo giudica uno schiaffo molto grave ai diritti delle donne, ma esistono segnali di speranza in quanto la protesta delle donne turche scese in piazza significa che c’è una porzione sempre più alta di donne che non intendono rinunciare ai diritti conquistati.
Circa la reazione della stampa, lamenta che la notizia non sia stata particolarmente evidenziata, ma diffusa e poi sommersa da altre notizie, quasi si trattasse di un fatto di interesse locale.
L’ultimo intervento è quello di Fiammetta Malagoli Presidente della Consulta Femminile di Genova che riunisce 17 associazioni femminili fra le quali Fidapa e AIDDA.
Dissente sull’affermazione “le donne turche insorgono” in quanto sostiene che in una ricerca recente svolta dal CNR insieme con l’Università Turca di Isparta e che ha avuto come focus la relegazione della donna al ruolo di moglie e madre, risulta che nel periodo più triste del lockdown, dove in Italia le donne hanno maggiormente subito le violenze e le prevaricazioni degli uomini, in Turchia invece le donne hanno avuto la sensazione di un periodo di pace e serenità essendosi adattate a degli stereotipi di genere.
Per questa ricerca sono state effettuate in Italia circa 140.000 interviste, in Turchia circa 10.000. Hanno dato risposta positiva al relegare la donna al ruolo di madre e moglie in Italia il 32%, in Turchia 68%. In Turchia è emerso che chi ha risposto all’indagine era prevalentemente di bassa cultura e quindi più soggetto a conformare i propri comportamenti agli stereotipi di genere.
Questo atteggiamento condiscendente è stato percepito come un modo per poter godere di pace e serenità. Contrariamente a quanto avveniva in Italia nel periodo del Lockdown, anche la violenza è stata accettata e considerata a basso rischio.
Conclusioni
Alla domanda di Marta Brusoni “che cosa è possibile fare” le tre presidenti concordano sull’importanza di interventi in sinergia, in quanto l’azione delle singole associazioni non può avere risultati altrettanto efficaci.